“– el demonio es gran pintor”
Bisognerebbe chiedersi anzitutto come, ed a quali condizioni, il diavolo (ma non sapremo ancora, per ora, se si tratti del diabolico, del demoniaco, del demonico) faccia il suo ingresso, storicamente, nelle arti figurative, e poi in una tradizione iconografica quale quella cristiana. Questa domanda – se pensata adeguatamente – non chiede come il diavolo venga rappresentato (non rimanda alla storia delle sue diverse raffigurazioni), bensì come la rappresentazione del diavolo consenta all’arte di seguire nuove strategie, creazioni, trasformazioni interne alla propria ricerca. Ciò che sarà sempre in questione, nell’arte, non sarà mai il problema di come “rappresentare” il diavolo, quanto piuttosto di come il diavolo consenta la sperimentazione di nuovi colori, nuove linee, forme, movimenti.
In arte, Belzebù. Come se il diavolo non potesse che giungere, ritornare, se non «sotto un altro nome», in the other devil’s name: in arte Belzebù, o Lucifero, o Satana (come poterli davvero distinguere?), ma sempre, in ogni caso, un nome sotto il nome, proprio un “nome d’arte”, nome che nasconde (ma senza nascondere nulla). Nome proprio, dunque, ma senza referente, perché il diavolo non verrà che sotto un altro nome: verrà, cioè, solo come doppio, ma non di qualcuno o di qualcosa. Come il doppio che egli stesso è: “diavolo” non dice altro che il doppio, diable, double. Il doppio, il “sosia”, l’altro che io stesso sono: è questo il dia-bolico, ciò che separa senza tenere-insieme (diabàllein). Il diavolo è il doppio che impedisce l’identità della cosa – «diable ou un contraire du Moi, qui détruit le Moi au lieu de le remplacer» (Rank) – che impedisce ogni sé.
La logica dia-bolica è quella del due-senza-uno che si scrive contro quella sim-bolica dell’uno-che-è-due. In quest’ultima, la dualità è infatti, identica, resta un’unità (un due-che-è-uno); diversamente, il dia-bolico indica uno sdoppiamento senza identità, un due che non farà che raddoppiarsi, che essere il doppio del doppio – il doppio si sdoppia. Non si tratta, quindi, di affermare che l’uno non è, quanto piuttosto di interrogare come il due possa darsi senza l’uno. Il dia-bolico sarebbe allora anche il due-senza-due: il doppio senza che in esso si possano mai dire, identificare i “due” che lo compongono.
Per questo le cose, prese in un movimento dia-bolico, appariranno ora di una duplicità ambigua (Derrida: duplicité sans parité, double sans paire). Non l’una sarà infatti il doppio dell’altra, ma ciascuna sarà già il doppio di se stessa: doppio che si doppia, doppio che rende impossibile ogni unità e determinatezza iniziale. Non, cioè, la cosa rappresentata sarà semplicemente il “doppio” di quella “reale”, ma sarà la stessa realtà, la stessa referenza, ad apparire come il “doppio” di ciò che la rappresenta.
Dovremo dunque distinguere il sim-bolo (symbállein, ciò che tiene-insieme) dal dia-bolo che separa (diabállein) – diabole è la parola che Michel Tournier ha inventato, proprio per designare l’ «inversione maligna del simbolo». Il sim-bolo dice la cosa come identica soltanto come giudizio di identità, e non come identità della cosa: “A è A”, la cosa è se stessa, è identica a sé, soltanto nella riflessione che la separa da sé, nella predicazione che pone A in relazione a sé, e dunque in rapporto ad altro. Il proprio del sim-bolo è questo tenere-insieme i distinti, soggetto e predicato, facendo sì che il predicato dica l’identità del soggetto. E ciò sempre nell’illusione che il soggetto sia ciò porta i propri predicati – sia la referenza ultima, fissa, stabile, il “sostrato” che rende possibile la predicazione. Il diabole non sarebbe, in questo senso, che l’inversione di questa logica, ciò che la trascina verso il suo limite fino a rovesciare la foria – così, nelle parole di Tournier: non più Cristo che porta la croce, ma la croce che porta Cristo, il momento in cui il «crocifero diventa crocifisso».
Diabole dice che il giudizio di identità – tale per cui Cristo è colui che porta la croce – non fa che affermare, al contempo, che è la croce a portare il Cristo. In altri termini: il predicato è il doppio del soggetto, il quale a sua volta non è che il doppio del predicato. “A è A” non direbbe l’identità della cosa con se stessa, ma, al contrario – proprio perché il primo A è il doppio del secondo A, ed il secondo il doppio del primo, e ciascuno il doppio di se stesso – non farebbe che raddoppiare il doppio, che dire la cosa come il doppio del doppio. Il diabolico è un gioco di specchi – per questo lo specchio sarà sempre, nell’iconografia cristiana, lo strumento del diavolo, il quale abita da due parti, dall’una e dell’altra, dove l’una non è che l’altra, che il suo doppio.
Ma, in questo raddoppiamento continuo, diabolo non farà che dire la verità del giudizio: che il giudizio, cioè, non può mai affermare l’identità della cosa con se stessa, pur non mirando che ad essa. Dia-bolica non sarà allora, in un nuovo rovesciamento, la cosa stessa? Non sarà, cioè, essa, sempre separata, differente, irriducibile al simbolo, al suo tenere-insieme, e quindi in sé dia-bolica? Il gioco dello specchio, Spiegel-Spiel, è il gioco della cosa, di questa cosa (das Ding, il questo-qui nella sua singolarità) che si sottrae, resiste, si differenzia da ogni tenere-insieme proprio del sim-bolo. Il sim-bolo dice l’identità della cosa soltanto dicendo ciò che essa non è: la cosa è identica a se stessa soltanto in quanto è in relazione ad altro, in quanto è questa e non quella. La cosa – come ciò che non è altro che se stessa – gli si dà pertanto soltanto attraverso quello “specchio”, quel “raddoppiamento” che è il dia-bolico.
Ci saranno sempre più logiche interne al dia-bolico, a questa separazione senza separati, a questa differenza che non si dà mai come tale – perché altrimenti sarebbe identica a se stessa. Avremo allora sempre più d’una strategia, più d’una tradizione, più d’una risposta da poter seguire. Se ne seguiamo, qui, una, essa non si dà comunque senza un’altra (così non saremo mai sicuri di affermare – come pure stiamo facendo – che la cosa sia il dia-bolico, se esso infatti non si può a sua volta affermare che negandosi, in quanto «ab origine negazione di sé, auto-annullamento», in quanto inospitale verso di sé – Cacciari).
Se diciamo, dunque, che il diabolo separa nel senso di differenziare l’identità della cosa dal giudizio di identità, nel senso di resistere alla tentazione del giudizio, il diavolo sarà sempre anche colui che tenta al giudizio, alla separazione che de-cide, che oppone i due termini come distinti: il diavolo è l’«accusatore» (diábolos), colui che provoca il giudizio, che tenta Cristo a scegliere questo mondo, a diventare padrone di questo mondo (la tentazione del mondo, la terza tentazione), separandosi dal Padre. Altro gioco di specchi, allora: la tentazione dal giudizio è la tentazione del giudizio? Giudicare per non dover più giudicare?
Per questo si dovrà sempre tentare una logica dia-bolica ma senza il diavolo, senza la tentazione che esso rappresenta, senza stringere un patto con uno dei suoi nomi – il diavolo non potrebbe giungere che come una parte, un contraente, in un’economia dello scambio, in un’economia re-ligiosa (re-ligare è tenere insieme, nuovamente unire).
In cosa consisterebbe, allora, il dia-bolico dell’arte? Era questo ciò di cui domandavamo. Esso non starà nel rappresentare il diavolo, ma nel creare percetti – ossia insiemi di percezioni e sensazioni – secondo una logica dia-bolica. Si tratterà, in primo luogo, di non ridurre l’arte al suo voler-dire: dia-bolico è il silenzio dell’opera, il suo linguaggio-senza-linguaggio che non giudica, non redime, non identifica, che lascia la cosa nella sua estraneità radicale, la quale è la sua identità (e non l’identità del giudizio che la dice). Per questo l’arte non è mai imitativa, rappresentativa, “figurativa”, sim-bolica. Essa non dice nulla: il voler-dire la sottometterebbe al discorso, all’autorità della parola e del concetto, laddove invece viene qui in gioco un altro linguaggio – quello plastico, musicale, pittorico – che è senza-linguaggio, senza-parola. Dal concetto (che è giudizio, de-cisione, separazione che tiene-insieme) al percetto, non si restituisce più nulla, non si tratta più di esprimere delle percezioni, di rinviare ad un oggetto, ad un altro da sé. Si tratta, diversamente, di portare, attraverso le linee, i colori, i toni, il movimento, verso un’altra scrittura della cosa (scrittura della mano sinistra). Nell’arte, cioè, la cosa è sempre nella differenza rispetto ad ogni differenza che ci permette di dirla, di coglierla, di pensarla (questa e non quella).
Dia-bolico, demoniaco, demonico. Più d’una tradizione, si è detto, perché sarà anche impossibile distinguere veramente, definitivamente, il diabolico (cristiano) dal demonico (greco), dal δαιμόνιος, da quel semplice che pure è il più in-solito (das Un-geheure), l’estraneo, l’Unheimliche, ma anche il più “naturale”. Se dia-bolica è la cosa, è perché essa – proprio perché è ciò che vi è di più semplice, di più solito, ciò che immediatamente è – è al contempo il più inquietante: ciò che non può dirsi, che si sottrae continuamente al giudizio.
Il dia-bolico non dice la cosa. Dia-bolica è la cosa nella sua semplicità, nella sua singolarità, nel suo venire alla luce senza significare, nel suo essere senza-perché, nel non poter essere detta. Che la cosa non sia altro da se stessa: questo è il più difficile, il più inquietante, il più insolito.
Riferimenti bibliografici: M. Cacciari, L’angelo necessario, Milano, Adelphi, 1986; G. Deleuze, Francis Bacon: Logique de la sensation, Paris, La Différence, 1981; J. Derrida, La verité en peinture, Paris, Flammarion, 1978; Id., Spéculer – sur “Freud”, in La Carte Postale, Flammarion, Paris 1980; L. Link, The Devil :A Mask without a Face, London, Reaktion, 1995; M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La Nuova Italia, 1999; S. Kofman, Le double e(s)t le diable: L’inquietante étrangeté de L’homme au sable (Der Sandmann), in Quatre Romans Autobiographiques, Paris, Galilée, 1973, pp. 135-181; V. Vitiello, L’immagine infranta. Linguaggio e modo da Vico a Pollock, Bompiani, 2014; Id., Il dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Roma, Città Nuova, 2002.