Se esiste un legame per comprendere tanto l’arte contemporanea quanto le filosofie contemporanee, vale a dire i rapporti tra le due, questo può essere costruito nella relazione che l’ “immagine” (di un’opera d’arte o di una fotografia) instaura nei confronti dell’”altro da sé” cioè l’osservatore o l’osservatrice. Ci si chiede se è possibile, nel mondo moderno, dare valore a tale immagine senza ricondursi alla riproduzione digitale, ai mass media e ai sistemi pubblicitari come finzioni estetiche. In questo uno dei filosofi protagonisti del Novecento ovvero Ludwig Wittgenstein sostiene nel suo Tractatus logico-philosophicus che “l’immagine mi dice se stessa” alludendo ad una bidimensionalità che appartiene non tanto all’artista e al messaggio che vuole trasmettere quanto alla relazione soggetto-oggetto tra il pubblico e l’opera. Si può affermare che l’immagine non coincide con un’unità stabile già data ma ricerca al suo interno delle differenze, spesso contrastanti: da un lato attraverso una dipendenza dalla realtà dettata dai media o semplicemente il “ciò che appare” e dall’altro mostrando quello scarto che sussiste tra il virtuale e la realtà, quindi il “ciò che non si vede” come qualcosa di nascosto. Per usare la terminologia di Maurice Merleau-Ponty in Il visibile e l’invisibile, si può dire che quando guardiamo un quadro, lo sguardo non implica necessariamente un distacco e quindi un semplice “vedere” il quadro ma “si vede secondo” il quadro e con esso. Infatti, scrive a tal proposito, “la pittura, anche quando sembra destinata ad altri scopi, non celebra mai altro enigma che quella della visibilità”, quella visibilità, appunto, attraverso la quale l’artista fa apparire l’invisibile. L’artista così usufruisce dell’invisibile, come una molteplicità di rappresentazioni, che ha bisogno di un visibile per apparire, una forma da cogliere. Un intreccio aperto ad altre visioni oltre alla nostra, quindi quella bidimensionalità già trovata nel pensiero di Wittgenstein tra la il soggetto-oggetto visibile e il rimando all’altro da sé che caratterizza l’immagine artistica, l’invisibile. Viviamo in un universo estetico eterogeneo per l’abbondanza di immagini, di narrazioni, di design, di moda, di musica e di esposizioni. Per Adorno, filosofo contemporaneo appartenente alla scuola di Francoforte, l’arte è produzione dal proprio interno di quel “contenuto sedimentato”, vale a dire di quella storia immanente all’opera – l’immanenza all’interno della società- che si unisce con la sua forma, cioè con gli elementi sensibili dell’opera stessa. In questo Adorno, Merleau-Ponty e Wittgenstein si scoprono affini, nel ritrovare nell’immagine, intendiamo nell’opera d’arte, una “dimensione etica” oltre quella estetica apparente, che si traduce nella capacità di far emergere delle possibilità. Così non solo il vedere ma anche il corpo di chi osserva non è semplicemente un visibile di fatto tra i visibili, ma è visibile-vedente o sguardo. Questo stesso modo di intendere l’arte però, nella tradizione attuale, è stravolto dal continuo dominio della razionalità produttiva e mercantile che non elimina l’ “estetizzazione del mondo”, cioè il cogliere la bellezza in sé delle cose, ma rende il contesto artistico omogeneo e consumistico. L’arte non ha più come obiettivo l’esperienza dell’Assoluto, inteso come spirito mistico, trascendenza o Dio, ma stimola il consumo economico di tutti attraverso piaceri superficiali e immediati: ciò è de-grado culturale, la fine dell’armonia, della bellezza esistenziale e del sublime.
Con l’arte contemporanea del XXI secolo, già si fece strada il senso di un rifiuto verso un’ideale di bellezza come possibilità di salvezza dal Male, a causa delle tragedie storiche novecentesche segnando la fine dell’innocenza, della fraternità e dell’uguaglianza cari all’Ottocento. E’ qui che nasce il collegamento teorico tra l’immagine artistica e la realtà, perché l’estetica e il pensiero traggono la loro linfa vitale dalle possibilità non date dal mondo stesso, come la speranza e il desiderio di pace alla fine della guerra. Per questo, alla fine degli anni Sessanta, nella Teoria estetica, Adorno scrive che oggi non esiste “una promessa della felicità”, della quale parlava Stendhal, perché è evidente l’errore concettuale ottocentesco di “autonomia estetica” non affatto autonoma poiché strumentalizzata e partorita dalla logica capitalistica della produzione delle merci, che al tempo stesso vi si oppone. Usando il principio della doppia negazione dello Hegel, quando nella Fenomenologia dello Spirito spiegava la dialettica servo-padrone, Adorno nega nell’arte da un lato la possibilità di autonomia dopo la Shoah, dall’altro respinge una possibilità di politicizzazione delle pratiche artistiche. Il metodo di negazione, inteso qui per “liberazione”, renderebbe l’opera d’arte indipendente dall’industria del mercato e sopravvivrebbe dopo la Shoah. Se si osservano opere come Guernica di Picasso o I disastri della guerra di Francisco Goya, in riferimento al rapporto tra arte e il Male, emergono in tal senso gli eventi storici con l’intento di in-formare e con ciò rendendo l’invisibile (la tragicità) in modo visibile.
Un linguaggio simile rischia di dare importanza alla compassione a discapito della storia, per poi accontentarsi del solo stato affettivo solipsistico, cioè del solo relativismo. Nell’opera di Goya dei Disastri, si delinea una marcatura dello spirito patriottico dell’artista, che mostrerebbe gli spagnoli come vittime innocenti e eroi valorosi rispetto ai francesi barbari e carnefici. Ma questo non basta per definire l’ intero significato del contenuto artistico, ci sono ad esempio anche altre figure in Goya in cui sono gli stessi spagnoli a massacrare a colpi d’ascia i francesi. Infatti concetti come “violenza” e “insensatezza” si percepiscono a priori, come messaggi moralistici che lo stesso Goya vuole tramandare e che appartengono tanto alle vittime quanto ai carnefici.
In questo punto emerge il possibile scambio degli oppressori e degli oppressi, dunque una violenza scatenata da forze fuori ogni controllo. Ma uno degli aspetti più maniacali di queste immagini non è tanto la violenza degli atti quanto l’indifferenza, che neutralizza l’ideologia e offre una visione distaccata di quanto accaduto. Non si può non far riferimento ad Hannah Arendt che in un drammatico passaggio (in uno dei saggi ora compresi nella silloge dell’Immagine dell’inferno) osserva, a proposito dei prigionieri dei campi di concentramento, che “morirono come bestiame, come cose che non avevano né corpo né anima e nemmeno un volto su cui la morte avrebbe potuto apporre il suo sigillo”; è chiara la descrizione dei Lager nazisti in cui l’inguardabile ci ri-guarda e ci disgusta: se questo provoca al contrario piacere, è sadismo e trionfo del Male. Si parla di “inferno” perché i dannati sono costretti all’infinità della morte ma se nell’inferno tali conservano la propria identità, nei lager è proprio tale identità che viene distrutta. Così la banalità del male, per dirla con la Arendt, si configura come una prospettiva che consente non solo di rappresentare il Male ma anche di pensarlo senza assolverlo: il Male è in-sensato in quanto visibile e non raccontato poiché negherebbe la sua illogicità. Quello che ne consegue è allora l’immagine dell’orrore che non riguarda solo la morte ma anche il disfacimento dei corpi, l’offesa alla dignità (anche in un senso ontologico) che la figura umana possiede e l’accanimento alla sua costitutiva vulnerabilità.
Concludendo con Primo Levi, si può affermare che l’arte contemporanea e le filosofie contemporanee possono considerarsi la soluzione finale in cui “a essere revocata in questione è la stessa umanità” in cui ciò che conta è il divenir-uomo e il divenir-donna nelle irriducibili differenze , in uno stesso viaggio tra binari differenti ma entrambi posti “di fronte alla lotta per la vita”.