I. Anzitutto si deve far notare che è stata la “realtà virtuale” a fagocitare la “realtà sociale” e non il contrario[1], con ciò presupponendo che la nozione di realtà virtuale sia molto più inclusiva, o almeno abbia delle proprietà di più forte attrazione magnetica che a questo punto la realtà sociale non possiede più. Questa prima constatazione tira in ballo da una parte la nozione di realtà per come è stata rimeditata dal cd. nuovo realismo, che ha messo un visto, un protocollo, si potrebbe dire, su questa condizione umana[2], e dall’altro ha a che fare con la questione della rappresentazione del diritto e soprattutto della politica. In un epoca di de-sostanzializzazione, si può tranquillamente affermare che si tratti dell’ultima faccia del nichilismo: la realtà virtuale, il concetto di reality (il cui nucleo concettuale vale per estensione anche per il reality show: la matrice virtuale è la medesima[3]) è la realtà reale de-sostanzializzata e de-materializzata, nel senso precisato da Di Gaspare: «reality non è la negazione della realtà, bensì, all’opposto, il consolidamento realistico dell’immaginario nella percezione collettiva»[4].
Il “consolidamento realistico dell’immaginario”, dal punto di vista del soggetto, corrisponde all’apoteosi del sistema degli oggetti sociali di Maurizio Ferraris il quale, nel saggio che precede di qualche anno e precorre i temi trattati nell’oramai celebre testo sulla documentalità[5] sostiene che «malgrado le apparenze, sui soggetti non c’è un gran che da dire. Sono un tipo di oggetti caratterizzati dal fatto di avere delle rappresentazioni»[6]. Anche questo però è un filtro soggettivistico. Portato alle estreme conseguenze, il diktum di Ferraris, nel suo intrinseco relativismo, pare autorizzare a credere che ciascun soggetto sarebbe (ed è) in grado di elaborare una propria personale tassonomia ontologico-sociale, o adattarsi a quella degli altri, rendendo del tutto vano lo sforzo di chiunque decidesse di catalogare gli oggetti. L’ontologia sociale di Ferraris, per sua stessa ammissione, e qualunque tentativo ontologistico più o meno radicale, non può essere che una fotografia del reale, una natura morta priva di movimento e dynamis, in definitiva, non può che limitarsi all’introduzione di una metafisica fenomenista. Infatti dedicarsi solamente agli oggetti ha la significativa caratteristica di evitare tutti i problemi posti dalla vita dei soggetti, i cui fisiologici mutamenti darebbero adito a diverse interpretazioni: si tratta di un aspetto della virtualizzazione del reale, che a conti fatti significa veramente «rendere inumano il contesto umano»[7] e permettere alla realtà virtuale di soverchiare la realtà reale concludendo il processo di ri-scrittura algoritmica del vero di cui parla Boris Groy.
Il concetto di reality d’altronde non è altro che l’apoteosi della capacità moderna di produrre mondi.
Reality infatti è un mondo.
E dal momento che anche il mondo vero è divenuto favola nell’estreme propaggini del nichilismo compiuto, non c’è nulla che a sua volta non sia favola, non c’è nulla che non sia possibile inventare, produrre, modificare; non c’è nulla che non si possa cancellare. Il concetto di reality dice proprio questo: una estensione delle possibilità e delle facoltà perfettamente orizzontale (ciascuno può farsi produttore di un mondo, di una favola, ciascuno può vivere nella realtà virtuale, e contemporaneamente nessuno ha più diritti di altri per la partecipazione al mondo fantastico: il mondo fantastico è estremamente democratico) ed un correlato paradossale incremento delle potenzialità e delle facoltà di ognuno (esito del contestuale individualismo).
L’altro lato del problema, cioè la riflessione sulla rappresentazione del diritto e della politica (cioè dello spazio sociale, in fin dei conti), porta l’interprete a confrontarsi nuovamente con il concetto di realtà. Dice Baudrillard che nel tempo della violenza del Virtuale, «digitale e programmato, il reale non ha nemmeno più il tempo di accadere. Esso è disinfettato, immunizzato, cortocircuitato in embrione (…) e il tempo, quello vissuto, non ha più il tempo di accadere»[8]. Questa sostituzione (il virtuale che sostituisce il reale), ha influito anche sull’uso del linguaggio, immunizzandolo, in modo da ottenere un semplice ed efficace sistema di comunicazione alfanumerico, «collection of words beyond grammar»[9], producendo così l’estinzione graduale del segno, perché il linguaggio che deriva dalla realtà virtuale, che si adatta alla e si innesta nella realtà reale «non è fatto più nemmeno di segni»[10]. L’estinzione del segno, effetto della sostituzione, comporta ulteriori e non meno interessanti conseguenze: «è proprio nel momento in cui lo scambio del segno con la realtà diviene impossibile, che quest’ultima, in un certo senso abbandonata a se stessa e divenuta insignificante, diviene esponenziale e prolifera all’infinito»[11]. Il punto è che le caratteristiche di immersione immanenza e immediatezza che pertengono al virtuale nell’accezione baudrillardiana producono un effetto certo: «niente più sguardo, scena, immaginario, niente più nemmeno illusione, niente più esteriorità né spettacolo: è il feticcio dell’operatività che ha assorbito ogni esteriorità, riassorbito ogni interiorità, confondendosi simultaneamente nell’operazione del tempo reale»[12].
II. Confusione, illusione, abolizione della distanza: «l’eccessiva vicinanza dell’avvenimento e della sua diffusione in tempo reale crea un’indecidibilità, una virtualità dell’avvenimento che lo priva della sua dimensione storica e lo sottrae alla memoria» e prima ancora lo svuota del suo carattere reale, sostanziale e tragico, lo de-sostanzializza sottraendone proprio l’insorgenza del tragico: «oggi il tragico si è dissolto nel nulla di quella falsa identità di società e soggetto il cui orrore balena ancora fuggevolmente nella sua vuota apparenza», e così «la liquidazione del tragico conferma quella dell’individuo»[13]. L’immediatezza della vicinanza produce differenza: Unter-Schied. L’essenza della tecnica non ammette né vicinanza né lontananza: non per nulla Heidegger si riferiva al concetto di uniforme senza-distacco. Di conseguenza la percezione del fatto e della sua collocazione spazio-temporale è talmente rarefatta, che il fatto stesso pare privato di una sua essenziale dimensione: quella dell’accadere. Il fatto viene visto, invece, già accaduto ripetuto e riprodotto in mille modalità attraverso molteplici supporti, riproducibilità che lo priva della sua dinamica e financo della sorpresa colla quale ogni accadimento si manifesta nel suo reale e imprevedibile farsi. Il realismo ontologico, l’ontologismo radicale contemporaneo è per questo una natura morta, una tassonomia di oggetti, una galleria di animali morti e imbalsamati – che ebbero una vita, probabilmente, di cui però non rimane nemmeno il ricordo. Rispetto alla speranza colla quale Agamben guardava alla diffusione planetaria delle macchine fotografiche[14] (prima dell’introduzione del digitale, è evidente), per cui immaginava che cotal diffusione capillare comportasse un diverso ruolo del soggetto, non nell’immediato, ma nel futuro – immaginando che tutto quel fotografare non fosse altro che una specie di assicurazione stipulata da soggetti troppo deboli per poter prendere parte direttamente al reale/presente -, nell’epoca dell’abolizione del segno non c’è spazio per il ricordo, e la memoria la riserva per il futuro, perché tutto è immediato e immediatamente presente: in questo senso Periscope e prima ancora il concetto di Snapchat non hanno fatto altro che portare alle estreme conseguenze questo aspetto delle relazioni “digitali”: già la chat di What’s Up, che permette l’invio di testi fotografie filmati e messaggi audio ha prodotto la necessità di inviare un numero indefinito ed indefinibile di immagini, di selfie, di riproduzioni enogastronomiche, di illustrazioni modificate con Instagram in modo da ottenere l’effetto di una vita sempre al passo con la patinatura delle finzioni televisive cinematografiche e giornalistiche; immagini che nessuno mai riguarderà, perché non è necessario[15]. È anche di fronte a problemi come questo che l’uscita dal debolismo di cui si fa interprete Ferraris pare incespicare sulla oscillante variabilità della doxa: se viene a mancare la memoria, il ricordo, l’archiviazione, la traccia, non si può più parlare di documenti[16], e quindi quegli stessi oggetti sociali non potrebbero essere catalogati in nessun modo.
Interessante, in questo senso, l’esperimento condotto da Jonathon Keats intitolato Century Cameras, a Berlino e poi negli Stati Uniti. Nel caso di Berlino si è trattato di posizionare cento macchine fotografiche nascoste, con un tempo di esposizione di cent’anni, mentre nel caso di Tempe, in Arizona, addirittura di mille anni. Ancora più evidente l’intento provocatorio di Keats al link www.emerge.asu.edu/wp-content/uploads/2015/03/centurycameraEmerge-R1.pdf, presso il quale si può facilmente scaricare e stampare le istruzioni ed il cartamodello della century camera onde riprodurlo e metterlo in uso liberamente: la diffusione e riproducibilità sono assolutamente in contrasto con l’operazione fotografica centenaria, ed è probabile che Keats volesse far notare proprio questa contraddizione, per spingere a riflettere sulla metafisica della storia in cui è immersa la nostra attualità, fatta di non-tempi e non-luoghi, di un in-temporale e non localizzabile presente virtuale: «il medium digitale è soprattutto un medium di presenza: la sua temporalità è il presente immediato»[17]. E l’esito della sua presenza in-temporale è quello di ingenerare nell’uomo che lo abita il senso di gnessulógo: una «insopportabile unità di luogo fatta di non-luoghi»[18], com’ebbe a spiegare il poeta Andrea Zanzotto a proposito della celebre raccolta di poesie che lo vide presentare il concetto di non-luogo precedendo in qualche modo le analisi antropologiche di Marc Augé.
Note
[1] J. Baudrillard, Postfazione (1980), in P. W. Dick, I simulacri (1964), trad. it., Roma 2005. Cfr. anche il postumo J. Baudrillard, Cyberfilosofia, trad. it., Milano-Udine 2010.
[2] Maurizio Ferraris, che peraltro avrebbe introdotto il termine di “realitysmo” parla proprio di una fotografia realistica dello stato di cose: M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari 2012, X.
[3] Ed è curioso notare che anche da un punto di vista linguistico oramai è necessario far riferimento al reale come se fosse l’ultima frontiera dell’immaginario: in questo senso anche la televisione oramai da anni non può rinunciare alla “real tv”, al “real time”, al “reality show”. Quasi si trattasse di un romanzo oulipien, se nell’epoca del rigoglio della storia fantastica si poteva credere che l’invenzione fosse reale, quasi eguagliando realtà e fantasia, nell’epoca del realitysmo si è portati a credere che il reale rappresentato in quanto tale corrisponda invece ad una recita, ad una finzione che simula e dissimula ad un tempo il concetto di reale. Il che rivela che anche da un punto di vista estetico, probabilmente, un vero e proprio realismo ontologico è di là da venire.
[4] G. Di Gaspare, Teoria e critica della globalizzazione finanziaria. Dinamiche del potere finanziario e crisi sistemiche, Padova 2012, XXI.
[5] M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari 2009.
[6] M. Ferraris, Documentalità: ontologia del mondo sociale, in “Etica&Politica”, IX, 2007, 2, p. 249.
[7] B. Montanari, La fragilità del potere. L’uomo, la vita, la morte, Milano-Udine 2013, p. 138.
[8] J. Baudrillard, Violenza del virtuale e realtà integrale, cit., p. 8.
[9] B. Groys, Google: Words beyond grammar=Google: Worte jenseits der Grammatik. Exhibition catalogue, Stuttgard 2011, p. 7.
[10] J. Baudrillard, Violenza del virtuale e realtà integrale, cit., p. 9: postare un filmato o una fotografia è diventata una formula comunicativa.
[11] Ibidem.
[12] J. Baudrillard, Violenza del virtuale e realtà integrale, cit., p. 11.
[13] M. Horkheimer-T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, cit., p. 166.
[14] G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Torino 1978.
[15] In ciò l’Internet 2.0 sembra aver superato e abbandonato le premesse quasi cosmopolitiche dell’Internet 1.0 per come erano state intraviste da V. Frosini, L’orizzonte giuridico dell’Internet, in “Il diritto dell’informazione e dell’informatica”, 2/2000, p. 275.
[16] È la tesi del già citato M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari 2009.
[17] B.-C. Han, Nello Sciame. Visioni del digitale, Roma 2015, p. 29.
[18] A. Zanzotto, Su “Il galateo in bosco” (1979), ora in Id., Le poesie e le prose scelte, Milano 1999, p. 1218.