Quando il compimento di un’azione comporta una serie di eventi concatenati, avviene un incontro all’unisono fra quello che chiamiamo fato e il senso di responsabilità. Per un solo istante, prende piede il desiderio di evitare quella irredimibile conseguenza, allora, ogni cosa troverebbe un ordine, ogni collisione non causerebbe il collasso di una qualche relazione. È questo il messaggio di Life is Strange, il videogame narrativo, più precisamente, un’avventura grafica in terza persona, entrato per diritto fra i titoli più apprezzati dell’anno appena passato. Per la prima volta, forse, è opportuno parlare della fusione tra romanzo e videogame, i due media, sposano perfettamente la prassi videoludica rintracciando caratteri neurocognitivi. Cosa faremmo al posto dei personaggi? Quale decisione avremmo preso? Adesso, è possibile agire nel vero senso della parola. La protagonista, Maxine Caulfield studentessa di diciotto anni che frequenta l’accademia di Blackwell nella cittadina di Arcadia Bay, nell’Oregon, appassionata di arte e fotografia, ha il potere di riavvolgere il tempo, evitando la fine di un evento prima che questo si trasformi in tragedia (la morte o la fine di una relazione). Raggirare la morte, manipolare il tempo, il sogno di molti è la realtà di Max. In una struttura narrativa volutamente complessa che fa dell’utilizzo di analessi e prolessi un type sintagmatico piuttosto affascinante, Life is strange presenta ad ogni azione una serie di possibilità di scelta, proprio come nella realtà, tutte le decisioni, più o meno razionali conducono ad un presente diverso da quello che sarebbe potuto essere altrimenti. Il plot del videogame informa esplicitamente il gamer: «questa azione avrà delle conseguenze», una volta pentiti dell’azione appena intrapresa è possibile tornare indietro il tempo e operare in altro modo. Va precisato, che le possibilità non sono infinite, pertanto, l’apparente microcosmo infinito propinatoci dagli sviluppatori, finisce per essere in realtà, uno specchietto per le allodole, trascinandoci con forza in decisioni comunque optate da altri, e quindi, non affatto libere, ma l’illusione che queste, – e la percezione è aumentata tale da risultare vera – siano veramente dipendenti da noi, ci rapisce in una realtà somigliante alla nostra. Se la trama narrativa viene in parte creata dalla nostra condotta videoludica, alla fine, la risultante è la compiuta influenza sulla nostra psiche.
[1] P. Virilio, L’art du moteur, Galilée, Paris 1993; trad. it. Lo schermo e l’oblio, Anabasi, Milano 1994.
[2] G. W. Leibniz, Scritti filosofici, UTET, Torino, 1967, vol. I, pag. 279.
Un piccolo capolavoro che fa della musica indie un climax coerente con la qualità della trama o meglio ancora, della sceneggiatura, perché la sensazione che si ha è quella di un binge-whatching in linea con la serialità televisiva del momento, anche Life is Strange è suddiviso in episodi, cinque esattamente. Non mancano le citazioni alternative come poche: Louise Dagherre, Diana Arbus, Robert Frank.
Oggi, stiamo assistendo alla cultura postmodernista della simulazione, dove la trasparenza dei nuovi media comporta una simulazione della nostra esperienza quotidiana il più fedelmente possibile. Per tale ragione, Life is Strange è uno dei titoli più contemporanei degli ultimi anni, poiché, chiama in causa l’utente imbrigliato in scelte di una quasi vita o quasi morte (ricordiamoci che stiamo parlando di un videogame). L’iper-realismo del gioco induce a pensare ad una vera mancanza di limiti visivi e temporali: «Senza limiti visivi non si dà più, o quasi, immaginario mentale [mental imagery]; senza un certo accecamento non c’è più apparenza sostenibile»[1].
La letterarietà del videogame si apre ad una visione circolare del testo che consente di viaggiare attraverso il passato nel passato ripercorrendo i ricordi come fossero i propri. La vicinanza alla Biblioteca di Babele è innegabile, vi sono tutte le scelte possibili, le varianti e gli opposti ma solo una, forse, porta alla verità. Questo titolo ha dato conferma che ci troviamo di fronte a un dispositivo dedito alla riproduzione del mondo o una porzione di esso, prigioniero delle cose, persino dei sentimenti, simulandoli chirurgicamente sulla sensibilità del gamer. Il medium al centro dell’attenzione è la fotografia, per mezzo di essa è possibile ripercorrere il vissuto di quelle istantanee, momenti singoli che sono la sostanza dell’immaginario collettivo, sollecitano pulsioni individuali e collettive generando un effetto piuttosto che un altro.
Nel 1997 Sherry Turkle scriveva: «La capacità di diffusione della simulazione come una sfida per costruire una critica sociale più sofisticata. Una nuova critica che non consideri le simulazioni nell’insieme, ma che faccia, piuttosto, delle scelte. Avendo come obiettivo lo sviluppo di simulazioni effettivamente in grado di aiutare chi gioca a mettere in discussione le premesse già configurate nel modello. Un nuovo tipo di critica che tenti di usare la simulazione come un mezzo per l’aumento della presa di coscienza». Life is Strange rispetta alla lettera un pensiero che già molti anni prima induceva a riconsiderare il videogame non soltanto come simulazione in quanto atto di ri-creazione su scala, bensì, riflesso di un’immagine del reale in grado di causare un vero e proprio cortocircuito fra azione e pensiero, incentivando una personale critica che mette -finalmente- in discussione le logiche del modello videogame.
Infine, Life is Strange invita ad una riflessione sul mercato del gaming: stiamo assistendo alla rivincita dell’indie sul pop per due aspetti che non passano inosservati. Il primo, per la tematica di carattere filosofico, si pensi alla Teodicea di Leibniz e alla teoria del «migliore dei mondi possibili», citiamo, “Senza di ciò non sarebbe possibile rendere ragione perché le cose siano accadute cosí e non altrimenti”[2]. Secondo, per l’aspetto produttivo del videogame, sviluppato dalla francese Dontnod Entertainment che ad oggi conta tre titoli all’attivo. Dettagli che evidenziano non soltanto la sofisticata particolarità videogioco, bensì, confermano una riconfigurazione del mondo video e ludico nel linguaggio pop inserendo poco alla volta, aspetti vintage, pop, persino melanconici ma più di qualunque altro “il ricordo”, nonché schema della trasformazione della merce in oggetto di collezione.