(prima parte)
I. Satoshi Kon (1963 – 2010), prima di consacrarsi alla regia di alcuni tra i più sorprendenti anime dell’ultimo ventennio, ha iniziato una lunga gavetta in qualità di disegnatore (mangaka), come la quasi totalità dei geni dell’immaginario audiovisivo, tra cinema e fumetto, del Sol Levante. Kon, sin dall’adolescenza, si appassiona ad alcune serie cult anche in Europa, sia di genere fantascientifico (Uchū Senkan Yamato, nota in Europa come Star Blazer, tra anime tv, film, live action, manga e videogames; Future Boy Conan, Conan, il ragazzo del futuro, serie tv scritta e diretta da Hayao Miyazaki; Kidō Senshi Gandamu, Mobile Suite Gundam) sia di altro genere (Alps no Shojo Heidi, Heidi, la ragazza delle Alpi, con la regia di Isao Takahata e il layout di Hayao Miyazaki, gennaio – dicembre 1974). Altre influenze notevoli nella sua formazione sono i romanzi di Yasutaka Tsutsui e la straordinaria serie manga Dōmu (gennaio 1980 – luglio 1981) di Katsuhiro Otomo. E proprio di Otomo, negli anni della gavetta, Kon diverrà assistente, collaborando, in qualità di autore dello script, al film live action Wârudo apâtomento horâ (World Apartment Horror, 1991) di cui Otomo è regista e come responsabile del layout della satira fantascientifica anime Rōjin Zetto (Roujin Z, 1991), diretto da H. Kitakubo ma scritto da Otomo, sceneggiatore anche del coevo manga, disegnato da T. Okada. Nel 1993 scrive e coproduce il quinto episodio della serie anime JoJo no Kimyō na Bōken (Le bizzare avventure di JoJo, 1994), tratto dall’omonimo manga scritto e disegnato H. Araki. Per Kon si apre la strada di importanti collaborazioni, utili a maturare come artista nel campo dei fumetti e del cinema: supervisiona Kidō keisatsu patoreibā the movie 2 (Patlabor: The Movie 2, 1993) di Mamoru Oshii, con il quale lavora anche al manga Seraphim: 266,613,336 Wings (1994). La prima esperienza di sceneggiatore cinematografico arriva un anno dopo con il corto cartoon Kanojo no Omoide (Magnetic Rose, 1995), diretto da K. Morimoto, incluso nel film collettivo Memorîzu (Memories), che comprendeva anche Saishū-heiki (Stink Bomb, diretto da T. Okamura) e Taihō no Machi (Cannon Fodder, di K. Otomo). I tempi sono oramai maturi per il debutto da regista, che arriva due anni dopo con l’anime Pāfekuto Burū (Perfect Blue, 1997), tratto dall’omonimo romanzo di Yoshikazu Tokeuchi: già nell’opera d’esordio il talento di Kushiro mostra qualità narrative e stilistiche pregevoli. Il thriller psicologico è incentrato su Mima, idol e leader del gruppo j-pop delle CHAM, che decide di abbandonare per intraprendere la carriera di attrice in una serie drammatica. Tormentata da uno stalker, compie l’inquietante scoperta di un sito, Mima’s Room, che segue le sue giornate con allarmante precisione. In seguito alle riprese di una scena di stupro, Mima subisce uno shock che le rende arduo discernere tra immaginazione e realtà. Kon inizia a strutturare i margini di una riflessione sull’esperienza mediale, sempre scissa tra diversi universi cognitivi (incubo/realtà, in questo caso) e tra opposti, ma ugualmente inquietanti, regimi del visibile e dell’udibile, esperibili in diversi contesti di produzione immaginaria (il pop, le serie tv, il web). Già nel 1997 Kon tenta l’adattamento in anime del romanzo Papurika (Paprika, 1993) di Yasutaka Tsutsui, ma deve rinunciarvi a causa del fallimento della Rex Entertainment, distributore di Perfect Blue. Pertanto il regista si dedica alla sua seconda fatica, Sennen Joyū (Millennium Actress, 2002), in cui racconta, sempre in forma cartoon, la misteriosa vicenda di un’attrice ritiratasi all’apice di una luminosa carriera. Una troupe di due persone di un’emittente televisiva la rintraccia per girare un documentario su di lei e inizia così un lungo racconto, in cui i fatti realmente accaduti si arricchiscono e colorano con i ricordi. I temi dell’illusione, del desiderio non consumato dal tempo e del cinema come documento fallace (“immagine-archivio” per dirla con George Didi-Huberman[1], o regno simbolico aperto a ogni possibile falsificazione, per dirla con René Barjavel[2]), e pertanto innesco del fantastico e del ri-facimento, incessante, di ciò che accadde un tempo, sono serviti dalla sceneggiatura, molto ben progettata, di Kon e Sadayuki Murai, e dalle musiche di Susumu Hirasawa, compositore e musicista techno-progressive, centrale in tutta la filmografia di Kon. Il tema dell’esperienza spettatoriale come performance della memoria è da Kon sviluppata, seppur con leggerezza, nella pienezza del suo portato tragico. Non solo i nostri ricordi spettatoriali sono fallaci, incerti, mutanti, ma anche chi del cinema è stato protagonista si perde in quest’immane performance in cui la mente umana deve confrontarsi con l’archivio della memoria culturale filmica.
L’ottimo successo di critica e di pubblico di Millennium Actress consente all’autore nipponico di poter disporre di un budget più consistente per il suo terzo film, Tōkyō Goddofāzāzu (Tokyo Godfathers, 2003), incentrato sulle vicende di tre homeless (un alcolizzato di mezza età, un trans e una ragazzina scappata di casa) che rinvengono un neonato abbandonato e, pur con diverse opinioni al riguardo, si battono – nella Tokyo festosa della settimana tra Natale e Capodanno – per ritrovarne i genitori. Giudicato da Luca Raffaelli[3] il remake metropolitano di Three Godfathers (In nome di Dio, John Ford, 1948)[4], Tokyo Godfathers svela una sensibilità, originale per il panorama del cinema mainstream giapponese, sugli emarginati e gli esclusi da un modello economico-sociale ipercompetitivo e crudelmente feroce. In questi anni Satoshi Kon entra, a pieno titolo, nel club dei grandi maestri dell’animazione giapponese, insieme a mostri sacri come i già citati Katsuhiro Otomo (AKIRA, 1988, Suchīmubōi, Steamboy, 2004) e Mamoru Oshii (Kidō keisatsu patoreibā the movie, Patlabor: The Movie, 1989, MAROKO, 1990, Kidō keisatsu patoreibā the movie 2, Patlabor 2: The Movie, 1993, Gōsuto in za sheru / Kōkaku kidōtai, Ghost in the Shell, 1995, Inosensu, Ghost in the Shell 2: Innocence, 2004, Sukai Kurora, The Sky Crawlers, 2008), ma anche Shinichiro Watanabe (Kaubōi Bibappu, Cowboy Bebop, 1998) e Hideaki Anno (Shin seiki Evangerion Gekijō-ban: Shi to Shinsei, Neon Genesis Evangelion: Death & Rebirth, 1997, Shin Seiki Evangerion Gekijō-ban: Air/Magokoro o, Kimi ni, The End of Evangelion, 1997, Evangerion Shin Gekijōban, Rebuild of Evangelion, 2007). Questi autori trasformano l’anime in un prodotto compiutamente adulto, una forma culturale in grado di rappresentare i conflitti della postmodernità e della postumanità in società altamente tecnologizzate come quella giapponese: la psicosi, le dinamiche dell’esclusione sociale, la rivoluzione antropologica innescata dalle invasive tecnologie elettroniche e digitali. In una dichiarazione resa al “New York Times”, Kon è piuttosto esplicito sulla direzione intrapresa da questa new wave dell’animazione nipponica: “Ho realizzato i miei film con l’intenzione di attrarre un’ampia audience, un’audience mainstream (…) Eppure tendono ad essere percepiti come più artistici” (tr. nostra)[5].
II. La trama di Papurika (Paprika, 2006), liberamente tratta dal romanzo di Tsutsui, si basa sulle vicende di una scienziata, Atsuko, che insieme al suo team, produce un dispositivo in grado di penetrare nel mondo onirico dei pazienti e di registrarne i sogni come fossero piccoli film. Il dispositivo, DC Mini, può essere usato per losche finalità, come il controllo dei sogni della popolazione. Da qui inizia un’avventura che coinvolge il team di scienziati composto da Atsuko, l’iperobeso dottor Tochita, il direttore e anziano dottor Shima, il misterioso presidente bloccato su una sedia a rotelle, ma anche l’ispettore Konakawa (che disprezza il cinema ma sogna per generi cinematografici) ed un turbillon di altri personaggi collaterali.
In prima battuta, Paprika sembra prendere in mano il tema principe di molta fantascienza occidentale e asiatica degli ultimi tre lustri: “la relazione, sempre cangiante, tra i nostri sé fisici e le nostre macchine”(tr. nostra)[6] . Il “terrorista”, infatti, si impianta nella mente delle proprie vittime-schiavi per manipolarne i sogni, rendendoli quindi mansueti corpi da manovrare: in questo senso, Kon ha l’abilità di connettersi ai vasti panorami simbolici della tradizione culturale del cinema occidentale del “corpo come Cosa” o della Cosa, come altro da sé con cui confrontarsi (il Golem, l’automa, il robot, il cyborg, la marionetta, lo zombie – non a caso alcune di queste figure ricompaiono nella famosa parata che, da sognata, diventa reale)[7]. Il presidente della clinica in cui lavorano i protagonisti si arroga il diritto di preservare il mondo onirico dalle tecnologie invadenti dei suoi dipendenti, rinvenendovi l’ultima parvenza di “naturalità” in un’umanità ormai trasformata dall’intensità delle interazioni con la tecnologia[8]. Plagiati dalle sue macchinazioni, gli scienziati sono in balia di un Caso implacabile e imponderabile, che può essere compreso solo a patto di mettere a rischio la propria esistenza come esseri senzienti e sognanti.
La dottoressa Atsuko ha il suo doppio onirico e sensuale, Paprika, i cui tratti delicati sono la condensazione dei desideri del maschio “debole” giapponese, impaurito da personaggi femminili dal carattere deciso e dai tratti marcati. Il personaggio di Paprika richiama abbastanza chiaramente il maggiore Kusanagi, così come il “maestro dei sogni” appare, in qualche modo, ispirato al “signore dei pupazzi”: sono questi i due omaggi a Ghost in the Shell del maestro/mentore/amico Mamoru Oshii.
Note
[*] I due autori hanno discusso e concepito insieme l’intero saggio, che è stato suddiviso in due parti: i par. I e II, pubblicati in data odierna, sono stati scritti da Marco Teti, i paragrafi III, IV e V, che verranno successivamente divulgati, sono stati redatti da Mario Tirino.
[1] Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Milano, Raffaello Cortina, 2005.
[2] René Barjavel, Cinema totale. Saggio sulle forme future del cinema, Roma, Editori Riuniti, 2001.
[3] Luca Raffaelli, Le anime disegnate: il pensiero nei cartoon da Disney ai giapponesi e oltre, Roma, Minimum Fax, 2005.
[4] Il film di Ford del 1948 è tratto dal romanzo breve The Three Godfathers (1913), opera prima di Peter B. Kyne, portata sulla schermo per altre quattro volte, di cui due dello stesso regista di Stagecoach: The Three Godfathers (E. LeSaint, 1916), Marked Man (J. Ford, 1919), Action (J. Ford, 1921) e The Godchild (J. Badham, 1974)
[5] Dave Kehr, “Anime Dreams, Transformed Into Nightmares”, New York Times, May 20th, 2007, http://www.nytimes.com/2007/05/20/movies/20kehr.html?_r=0
[6] Manohla Dargis, “In a Crowded Anime Dreamscape, a Mysterious Pixie”, New York Times, May 25th, 2007, http://www.nytimes.com/2007/05/25/movies/25papr.html.
[7] Gino Frezza, Dissolvenze. Mutazioni del cinema, Latina, Tunué, 2013.
[8] La sottotrama dell’anziano presidente disabile, in sedia a rotelle, che utilizza le potenzialità della DC Mini, per riassaporare, attraverso i sogni altrui, vigore e giovinezza, ha, evidentemente, più di un legame con la storyline essenziale di Avatar (2009) di James Cameron.