Ovviamente Marx non si è mai sognato di scriverne. Né negli scritti filosofici giovanili, né tantomeno in quell’opera il cui titolo potrebbe farlo sospettare: La Sacra Famiglia. Ma un ripassino di Marx può aiutare.

Già prima del Capitale Marx insiste sul fatto che la sua novità teorica rispetto agli economisti Classici (Smith e Ricardo) consiste nella scoperta che il lavoratore non vende ‘lavoro’ come si diceva e si dice, superficialmente, ancora oggi, bensì vende ‘forza-lavoro’. Nel linguaggio corrente, e anche di molti marxisti, purtroppo, ‘forza-lavoro’ equivale a ‘lavoratore’; abbaglio gigantesco.

Prima del Capitale Marx aveva usato un’altra espressione, ‘capacità-lavorativa’ (Arbeit-Vermögen), per sottolineare ciò di cui si trattava la vendita che era una ‘possibilità’ (Vermögen, δυναμις: capacità). Poi, dopo, forse temendo che l’espressione Arbeit-Vermögen fosse troppo filosofica e non di comprensione immediata la cambiò in Arbeit-Kraft (forza-lavoro). Ma si trattava anche in questo caso di una ‘forza’ solo possibile, non nella sua attuazione. Tant’è vero che Marx parla di ‘muscoli e nervi’, come a dire che in vendita è la ‘forza’ che il lavoratore ‘potrà’ esercitare, venduta ‘prima’ che venga messa in atto. Tanto è vero che, per quanto caso raro e ovviamente contro-intuitivo, il capitalista può comprare questa ‘capacità’, e non usarla. E infatti, coerentemente, Marx definisce il ‘lavoro’ come l’«uso» della forza-lavoro. Il lavoro è l’azione, ma la forza-lavoro è la possibilità di attuarla.

(La possibilità è tale infatti perchè è diversa dalla sua attuazione; differenza per cui rinvio alla prima discussione tra Aristotele e i Megarici; Metafisica, libro Θ; forse per quello Marx ne era così fiero).

Con questo ripassino adesso siamo in grado di capire meglio, seguendo Marx, di cosa si tratta quando si parla di ‘maternità surrogata’: della compravendita di una capacità, unicamente prerogativa delle donne, la «capacità procreativa». Quindi nessuna vendita del corpo o di una sua parte, come lo stupidario dominante ha profuso a piene mani. Quindi elaborando da sciocchi sulla parte del corpo implicata, la vagina (prostituzione) o l’utero, organi di cui peraltro sarebbe ceduto solo l’uso (o in affitto, come si dice, seguendo l’uso anglosassone per il caso del ‘lavoratore’, hired; equivocando ‘uso’ e ‘possesso’, com’è nel caso del leasing di una macchina, o di una casa).

La Bonino, poi, ha avanzato un’analogia demenziale, paragonando la ‘maternità surrogata’ alla cessione dei reni. Nella donazione dell’organo, come anche nel caso dei fluidi come il sangue, l’oggetto passa fisicamente dal corpo del donatore a quello del donato, fatto che non ha assolutamente nulla in comune con quello di cui si parla. Perché l’oggetto (il figlio) non c’è nel momento del contratto (come invece necessariamente ci deve già essere nella donazione di organi e fluidi), e il donante resta in possesso sia dell’organo implicato nella capacità, che della capacità stessa.

Quindi vendita di una capacità. Ma non di una qualunque capacità di mettere in atto una qualsiasi abilità. Si tratta della capacità che ‘definisce’ solo ed esclusivamente l’individuo ‘femminile’ della specie: la donna. Tanto è vero che tutti coloro che, per loro sfortuna, non si ritrovano nel sesso del corpo che il caso gli ha assegnato, possono certo modificarne l’aspetto esteriore, per attenuare la loro infelicità, ma non certo completare la trasformazione con il ruolo riproduttivo del sesso cui aspirano; di cui sono quindi solo ‘apparenze’ (esseri comunque incompiuti).

Perchè le donne non sono donne in quanto hanno capelli lunghi, begli occhi e altre parti del corpo apprezzate da altri esseri che le desiderano sessualmente (uomini o donne che siano). Ma perché tutta la loro fisiologia parte e si organizza intorno a questa capacità esclusiva. Chiunque o qualsiasi cosa ne sia stata la ragione (Dio e la sua creazione come dice la Bibbia, o secondo un ‘progetto intelligente’ come dicono i ‘creazionisti’ – la versione scientista della rivelazione biblica -, o l’evoluzione) alla fine della fiera siamo arrivati alla distinzione degli esseri umani in due individualità fisiologicamente distinte, che devono cooperare per garantire continuità a questa specie che popola la Terra, ma di cui un individuo, il maschio, contribuisce solo in modo effimero, mentre l’altro, la femmina, porta tutto il carico dell’attuazione di questa ‘possibilità’, la procreazione.

Per favore non tiriamo fuori argomenti da Bar Sport; che non tutte le donne hanno istinto materno, che ci sono oggi donne che preferiscono la carriera, che ci sono coppie sterili (in genere uno o l’altro dei due), oppure anche se non lo sono per vari motivi hanno preferito, o gli è capitato di non avere figli. La Natalia Aspesi scrive che la massima libertà della donna è di ‘non’ fare figli. Giusto, ma solo le donne possono scegliere di ‘non’ farli. All’uomo questa scelta è inibita; semplicemente non può. E questo non-potere è di tutt’altro genere delle im-possibilità che possono capitare a un essere femminile, di patologie pre- o post-natali, o altri contingenze che le privino della facoltà. Perchè per l’appunto ciò le ‘priva’ di una ‘loro’ facoltà, cioè fa’ di quella donna una singola donna ‘senza’ quella facoltà; mentre non ci possono essere ‘singoli’ uomini ‘senza’ la facoltà di procreare, perché ‘nessuno’ ce l’ha.

Tutto quello che si interpone tra una possibilità e la sua attuazione è contingenza. Ma la possibilità, unica ed esclusiva, è prerogativa dell’essere femminile della specie. Come sappiamo bene da tutti i casi a noi noti, di amiche e conoscenti che hanno scelto comunque di avere un figlio sotto la pressione dell’orologio biologico ‘che ticchettava’, come si usa dire (e la ‘realtà’ di questo orologio è del tutto inconferente). Di averlo indipendentemente da un’unione, stabile o meno, con la stessa persona, magari scelta apposta, che aveva contribuito. A maggior ragione se il contributo era casuale. Mentre non mi risulta assolutamente di maschi single che si siano sbattuti intorno per realizzarsi come padri; mai sentito in tanti anni. Questa differenza abissale nei comportamenti di fatto qualcosa vorrà dire, al di là delle chiacchiere.

Una capacità in vendita in questo mondo capitalistico ha dinamiche note e direi necessarie; ce l’ha insegnato il solito Marx.

Sappiamo dalla notorietà del caso Vendola che esiste a San Diego un’agenzia di intermediazione, la Extraordinary Conceptions che, come molte altre suppongo, mette in contatto coppie che vogliono un figlio con candidate gestanti-&-partorienti. Un tipo di rapporto che ricorda il Verlagsystem (industria a domicilio), che ancora nel­l’Ottocento era diffusa in Europa e in Inghilterra era stata caratteristica dei primi decennio del decollo. Marx lo chiamava ‘sussunzione formale’ del lavoro sotto il capitale. Il capitalista forniva risorse al ‘produttore’ casalingo e poi raccoglieva il prodotto e lo distribuiva. Ma il produttore non lavorava sotto il controllo ‘diretto’ del capitalista; da cui il termine di Marx ‘formale’, nel senso che il mercante-capitalista pagava un ‘prodotto’, ma non un ‘salario’. Cioè il rapporto aveva a che fare solo con la ‘forma’ di merce del prodotto, e non con la produzione della sua realitas, di ciò che la merce è, come quando il processo è sotto controllo completo del capitalista, nella fabbrica in cui si attua la sussunzione reale del lavoro sotto il capitale.

Qui c’è maggiormente (quantomeno finora) l’aspetto di agenzia di intermediazione; ma l’analogia è comunque utile.

A quanto si sa dal caso Vendola, la cifra complessiva del prezzo da pagare è di 150mila dollari, anche se non è chiaro a quanto ammonti l’intermediazione. Non poco, se da altre fonti si parlava di compensi da 35mila a massimi di 50mila dollari. Dal Corriere leggiamo che: “Una volta completata la registrazione in cui si forniscono le generalità della coppia, la nazionalità, l’orientamento sessuale e il trattamento desiderato si ha accesso all’elenco delle donatrici, che in tutto sono duemila, e a quello delle portatrici, che invece sono solo cento. È possibile fare una ricerca mirata della persona che cerchiamo indicando razza, orientamento sessuale, studi fatti, età e se richiediamo un aborto in caso di malformazioni o una eventuale riduzione fetale”. Insomma: intermediazione, mercificazione e anche una spruzzata di eugenetica. Un complesso davvero profumato.

Il numero stesso delle donatrici di ovulo – rispetto alle ‘portatrici’ – suggerisce che il mercato cui l’agenzia si rivolge oggi è, quantomeno in prevalenza, omosessuale. Ma sono possibili sviluppi ulteriori, proprio nel comparto eterosessuale che potrebbe far crescere la dimensione del mercato in modo esponenziale e far fare un salto alla sussunzione reale. Cioè la formazione di cliniche-complessi in cui il processo fosse messo sotto controllo dall’inizio alla fine. Dal Verlagsystem all’industria.

Non è infatti impensabile che una volta che le coppie omosessuali abbiano aperto il mercato e si siano assunte i primi rischi di una nuova pratica questa si possa espandere. Se ricordiamo l’esplosione del parto cesareo non dovuto a esigenze cliniche ma solo al desiderio di ridurre gli inestetismi post-parto delle signore partorienti, non sembra impossibile un nuovo passo avanti.

Si potrebbero infatti organizzare cliniche cui coppie con mezzi si rivolgano per separare il concepimento dal processo successivo, gestazione e parto. Una volta prodotta la fecondazione la gestazione verrebbe portata avanti da donne selezionate, molto probabilmente di etnie di solidità fisica (tra le europee negli ultimi decenni si sono moltiplicate infatti le fragilità e i rischi legati alla maternità); quindi sudamericane, asiatiche o africane direi. Gli eventuali rischi residui poi potrebbero essere coperti da adeguate contro-assicurazioni.

In questo modo le signore potrebbero evitare le noie e i pericoli anche della gestazione per non parlare dei dolori e dei rischi del parto; nonchè gli inestetismi del post-parto. Una volta affidato l’ovulo fecondato della coppia – o comunque sia – alle amorevoli cure della clinica, la signora potrebbe condurre la sua vita famigliare, sociale e professionale in piena libertà. E alla fine ne avrebbe comunque il frutto desiderato. Poi dopo ci saranno altre donne cui affidarne la gestione. Ma questo si è sempre fatto. Era nella prima fase che fino ad ora la fatica e il rischio dovevano essere assunti di persona. E così giustificare l’appellativo di ‘madre’. Il sarcasmo non nasce dal fatto di voler evitare fatiche e rischi; è umano. Ma dal fatto di approfittare di condizioni di povertà altrui per scaricarli.

Ovviamente le donne di fasce di reddito inferiori continuerebbero a gestirsi la gravidanza nelle modalità tradizionali. Ma per quelle delle fasce di reddito superiore sarebbe possibile ‘esternalizzare’ la produzione dei loro stessi figli a donne delle fasce inferiori. Certo, possiamo anche immaginare un mondo i cui alcune donne o professionalmente o occasionalmente vendano la loro ‘capacità procreativa’, per un guadagno regolare o integrativo. Normale? Huxleyano? Progressista e di sinistra?

In quel mondo l’estensione della forma di merce alle capacità più intime dell’esse­re umano si compirebbe. Già anni fa, Mario Tronti caratterizzò la svolta in atto a partire dagli anni Ottanta come la sussunzione sotto la forma di merce dei rapporti sociali. Questo passo è al tempo stesso possibile e pensabile, e io direi perfino probabile; sarà solo un ulteriore scatto in avanti. Il primo passo verso la ‘mercificazione totale’ è già stato fatto.

Alcuni amici mi dicono che questo accadrà necessariamente, e che quindi è inutile opporsi. Sono assolutamente d’accordo. Gli sviluppi futuri si verificheranno in non molto tempo, a giudicare dall’accelerazione che ha portato fenomeni impensabili fino a poco tempo fa’ a essere considerati ovvi; e perfino circondati di una melensa retorica sentimentale a loro giustificazione.

Penso anch’io che sia inevitabile; ma non riesco a convincermi che la ‘mercificazione totale’ della sostanza umana (cioè la sua ‘capacità’ più propria) sia ‘progressista e di sinistra’. Proprio per questo dico: not in my name.

APPENDICE

Il corpo della donna può essere considerato come il telaio del tessitore casalingo del Verlagsystem. Proprio per quello l’ho richiamato (anche se non lo è). E infatti ho parlato di passaggio all’industria nel senso di raccogliere le donne (coi loro corpi-telai) nella clinica.

Ovviamente in questo caso nessuno può separare il produttore dal mezzo di produzione. Ma la forma di merce rimane perché è l’intermediario capitalista che dirige il processo. Non solo, ma rimane anche la sussunzione reale sotto il capitale e non solo formale (per usare le categorie marxiane; ricordando che ‘formale’ è solo il mercante che gira tra i tessitori, che tessono in modo ‘tradizionale’; ma la ‘forma’ sociale del loro lavoro è moderna: la merce) anche perché sarà pur vero che il corpo-telaio è inalienabilmente della donna.

Questo perché, anche nel caso della fabbrica-parto, in realtà non si tratterà di vera e propria ‘produzione’. Sarà sempre la ‘capacità generativa’ delle donne ad attuare la ‘generazione’. Ovviamente tutto ciò richiama proprio quella distinzione che Aristotele esamina nella Fisica B sulla differenza tra il medico e l’opera del medico e quella dell’artigiano. Ed infatti la fabbrica-parto interviene per ‘aiutare’ – medicalmente – la ‘generazione’, non la sostituisce. Anche se sostituisce il ‘lavoro’ di generazione delle signore donatrici dell’ovulo.

Ma senza le attrezzature cliniche, imponenti, questo corpo può lavorare in modo inefficace. Come è oggi storicamente il caso. Solo le donne africane partoriscono ancora lungo le strade accovacciate. Nei paesi sviluppati è cresciuto un apparato clinico medicale e di macchine imponente per garantire la salute della gestante e del neonato (con l’inevitabile inversione del rapporto tra sistema di macchine e corpo-produttore, quale Marx ha analizzato tra sistema di macchine e lavoratore nel famoso Frammento sulle macchine dei Grundrisse).

Senza l’apparato (il Gestell heideggeriano?) non si dà neppure la nascita privata. Figurarsi quella ‘commercializzata’ con la necessità di tutte le garanzie degli investimenti (della clinica e dei committenti). Quindi l’apparato centrale clinico è assolutamente necessario perchè il processo produttivo del singolo corpo-telaio sia attuabile in modo mercantile. E questo collegamento tra corpo-telaio e apparato clinico configura la forma specifica della sussunzione reale della capacità produttiva sotto il capitale; nel caso specifico della compravendita della «capacità procreativa».

PS.

A questo punto, è bene ricordarsi di papa Giovanni XXIII, e distinguere ‘peccato’ e ‘peccatore’. Si può certo astenersi dal condannare Vendola, ma ci si può, io direi, ci si deve astenere dall’approvare quello che ha fatto. Ma soprattutto se ne deve rifiutarne l’apologia come ‘progressista e di sinistra’. La ‘mercificazione totale’ non lo è. Neppure per Vendola.

 

Nato a Modena nel 1941. Laureato in Economia e Commercio a Bologna. Perfezionamento presso la Scuola Superiore di Pianificazione e Statistica e l’Accademia Polacca delle Scienze a Varsavia. Dal 1994 al 2011 docente di Economia Politica e Storia del Pensiero Economico presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Trieste. Vari periodi di ricerca presso il Vienna Institut for Comparative Economics. Più volte Visiting Scholar presso la Faculty of Economic and Political Sciences a Cambridge. Autore di contributi pubblicati su riviste nazionali e internazionali. Commentatore sul Piccolo di Trieste e del Manifesto. Ha ultimamente pubblicato La Germania: il problema dell‘Europa? per i tipi dell’Asterios Editore (Trieste, 2015)

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