Nella Festa Nazionale i partecipanti non hanno in mente un vero e proprio evento chiaro nei suoi contorni e nelle sue valenze storiche, ma richiamano alla mente un avvenimento fondatore che serve solo a rievocare gli albori della Nazione e l’orizzonte simbolico che vi è alla base. Nelle cerimonie di commemorazione si tratta invece di riformulare e ribadire quei valori fondamentali che sono resi vividi dal ricordo del passato, riattualizzato nella dimensione del presente. Persino gli eventi più recenti possono elevarsi al rango del ricordo commemorativo, sebbene non appartengano a un passato così distante da poter essere definito in termini strettamente storici. Il criterio fondamentale affinché un fatto sia degno di commemorazione non riguarda tanto la distanza storica, quanto più il suo potenziale rievocativo riguardo a quei valori condivisi che fondano l’identità collettiva della Nazione. Anche gli avvenimenti ancora molto vicini a noi possono allora essere sottoposti a un processo di storicizzazione e trasformati in oggetti di celebrazione. Si pensi in particolare alle cerimonie di commemorazione che si sono tenute nella città di Parigi lo scorso gennaio in memoria delle vittime dell’attentato del 7 gennaio 2015 contro la sede del settimanale satirico Charlie Hebdo e al successivo attacco terroristico del 9 gennaio 2015 nel supermercato Hyper Cascher.
L’assenza di una distanza storica dall’evento palesa il livello di fictionarizzazione dell’avvenimento. La storicizzazione di un evento tanto recente dimostra che la commemorazione non serve solo da richiamo oggettivo di un passato che coinvolge i membri del gruppo, ma rappresenta piuttosto l’occasione di mettere in scena una performance politica di costruzione dell’identità che si serve del ricordo per promuovere un’immagine del sé il più possibile coerente con i valori dominanti e capace di rinsaldare i miti iscritti nella memoria collettiva. Il racconto storico è percepito come tale dalla comunità ma inglobato nella sfera delle occorrenze fattuali. È la legge a fondare la salienza dell’evento e la sua stessa esistenza storica agli occhi del gruppo. Già Hegel aveva notato come un genuino resoconto storico debba mostrare non solo una certa forma narrativa ma anche un determinato ordine politico che motiva e sorregge l’intrigo narrativo.[1] Inoltre, il soggetto che presenta testimonianza come fosse il racconto della realtà proferito dalla realtà stessa, è per Hegel lo Stato.[2] L’autorità legale che in Foucault incarna un potere politico autonomo rispetto al soggetto e indipendente dalla sua natura d’individuo.[3]
In una prospettiva costruttivista che vede l’identità come il risultato di un processo più che come un’entità specifica e delimitata da precisi confini spazio-temporali, si può parlare di una vera e propria finzione narrativa prodotta attraverso un processo performativo. Parleremo allora di performance politica dell’identità collettiva come versione ufficiale del passato che si costruisce nel momento stesso della sua rappresentazione pubblica. L’approccio teorico qui adottato dà forma a delle ricerche antropologiche che uniscono la memoria storica e collettiva in uno stesso processo performativo. La performance è definita da Schechner che si rifà alla sociologia drammaturgica di Goffman, come la rappresentazione di un comportamento del passato (restored behaviour) che mira a rappresentarlo sulla scena pubblica, ricostruendolo, portandolo a pieno compimento, per farlo infine rivivere nel presente.[4]
L’identità diventa così il frutto di più processi del sé, mimati e agiti di fronte a un pubblico di astanti, siano essi parte attiva o passiva della performance. In altri termini, lo sviluppo poietico del sé (costruzione dell’identità) è posto in essere e realizzato compiutamente nel momento stesso in cui se ne dispiega la mimesi (rappresentazione dell’identità). Per questa ragione nell’ambito dell’identità è impossibile separare il processo di costruzione del sé dal risultato di tale processo: il sé in quanto tale non esiste e non si realizza se non nel medesimo istante della sua rappresentazione. Se la performance del sé è contemporaneamente une mimesis e una poïésis dell’identità, il miglior candidato a rendere conto di questa prospettiva costruttivista è il modello performativo della narrazione che durante le commemorazioni degli ancora più recenti attentati di Parigi, la cui estrema vicinanza provoca ancora oggi un forte sentimento d’identificazione, ha assunto toni particolarmente intensi ed accorati.
Dopo appena un anno dagli avvenimenti, per un’intera settimana dal 4 al 10 gennaio, si sono succedute numerose cerimonie di commemorazione organizzate a fini politici dall’attuale governo di Centrosinistra e quindi riversate nei modi più spettacolari nelle piazze e nelle strade della capitale, così come in altre città francesi. Il Presidente della Repubblica François Hollande ha scoperto le targhe commemorative dislocate in diversi punti della città per rendere omaggio alle vittime del terrorismo islamico. Nella giornata del 10 gennaio, dedicata all’omaggio del popolo francese alle 149 vittime dei djihadisti a Place de la République, ho personalmente assistito alla cerimonia di commemorazione. Si è trattato di un vero e proprio rituale laico che ha assunto i contorni di una funzione religiosa, ricca di riferimenti a quell’ideale di convivenza sociale marchiato dai valori della Repubblica e della Nazione. “Libérté, Egalité, Fraernité” il famoso trinomio repubblicano alla base di quel secolarismo imperante che caratterizza l’identità nazionale francese, fungendo quasi da contraltare laico al principio della trinità cristiana, si è tramutato per l’occasione in un inno religioso capace di rinsaldare e di ribadire l’unione sacrale tra i membri del gruppo.
A differenza della Festa Nazionale che prevede un rigido schema comportamentale plasmato sulla divisione netta tra attori e spettatori, qui il confine si fa fluido e negoziabile e ogni individuo è libero di esprimersi in molteplici idiosincrasie della commozione. Qui non esistono demarcazioni tra le equipe e ognuno, assecondando il proprio sentimento individuale e la propria volontà di partecipazione, può decidere di agire in qualsiasi momento. Anche il semplice raccoglimento prende i caratteri di un’azione in senso proprio perché frutto di una decisione individuale dettata dalle proprie condizioni soggettive. Se i gesti istituzionalizzati delle autorità sono sottoposti a un rigido schema rituale, dal punto di vista degli astanti la performance commemorativa non prevede una codificazione dei gesti e dei comportamenti, limitandosi a stabilire la norma sacrale della compartecipazione emotiva al lutto collettivo.
È in questa cornice simbolica e psicologica che ogni individuo si fa carico della performance in atto, mettendo in gioco la propria soggettività: la sola presenza sullo spazio rituale fa in modo che l’individuo si percepisca come soggetto reale d’azione, pensiero, sentimento ed emozione; e tutto questo in un’intensa atmosfera di compartecipazione emotiva e sacrale che si accompagna a un raccoglimento condiviso capace di unire i soggetti facendoli interagire tra loro. Tuttavia, la malleabilità comportamentale della performance è disciplinata da una gestualità che risponde ai parametri socializzati e comunemente accettati dell’espressività del dolore e che si rifà direttamente a un codice corporeo ed emotivo che è tipico delle cerimonie funebri. Le lacrime, in particolare, diventano il canale privilegiato di espressione dell’emotività che si dipana dai corpi dei commemoranti.
In un’atmosfera di evidente commozione generale e di forte sentimento di partecipazione pubblica, sono state dispiegate numerose risorse materiali e psicologiche, che hanno disegnato un complesso scenario rituale ricco di oggetti pregni di un senso profondo dal punto di vista simbolico e spirituale. Tutto un armamentario votivo di vivificazione della memoria, è stato mobilitato dai partecipanti all’avvenimento e disseminato lungo le strade dell’undicesimo arrondissement, tra Place de la République e le sponde del Canal Saint-Martin:[5] cartelloni, bigliettini, bandiere, fiori, poesie, frasi, amuleti, disegni e fotografie. Tra questi oggetti rituali spicca, per maestosità e valore sacrale, il grande memoriale anch’esso fatto di fiori, disegni, immagini, foto delle vittime, commoventi dediche in diverse lingue e stili, parole di cordoglio, preghiere, slogan di pace. Posto per diversi mesi a ornamento della Marianna, monumento raffigurante l’allegoria della Repubblica Francese al centro di Place de la République, il memoriale, in quanto dispositivo simbolico e rituale di superamento del lutto collettivo, ha potuto riunire le persone intorno al ricordo degli attentati e a un orizzonte condiviso di senso e di valori, sedimentando un profondo sentimento di compartecipazione e appartenenza.
Queste cerimonie di commemorazione, succedute di poco agli attacchi del 13 novembre, sono servite da enorme cassa di risonanza nella diffusione di un’ideologia che strizza l’occhio all’islamofobia e che rifiuta un’analisi critica sulle responsabilità politiche dell’Europa nella definizione dell’attuale scacchiera geopolitica mondiale, soprattutto in area mediorientale. Puntualmente riprese dai media locali e internazionali, sono state poi riprodotte sulla scena pubblica come un’ulteriore presa di distanza “civile” contro la “barbarie del terrorismo”. Risulta pertanto evidente che la costruzione della identità di gruppo si riduce alla maniera ritualizzata di rapportarsi all’evento storico, in relazione ad un particolare orizzonte di senso e di valori condiviso da i suoi membri la cui legittimità logica ed etica viene ribadita in sede rituale. La costruzione dell’identità collettiva attraverso la celebrazione di un evento storico si richiama quindi a una delle tante narrazioni di tale avvenimento, resa implicita e semplicemente rievocata nello spazio/tempo performativo della pratica memoriale.
D’altra parte, la funzione performativa delle pratiche memoriali nelle società contemporanee è proprio quella di soffocare le spinte autonome di interpretazione dell’evento. L’identità collettiva è quindi costruita e rappresentata nello stesso istante performativo, previo rispetto di alcune condizioni di validità[6] che disegnano lo spazio rituale circonfuso di una dimensione sacrale separata dalla sfera ordinaria della vita quotidiana.[7] Sebbene la pratica memoriale promuova l’istanza di oggettivazione dell’avvenimento rievocato, in realtà sarà piuttosto il suo contenuto morale e politico ad essere al centro di un processo performativo dell’identità collettiva. La ridefinizione politica dell’avvenimento si serve del passato per costruire un’immagine positiva di sé nel presente e consolidare la posizione politica dominante come l’unica capace di difendere i valori fondanti dell’identità collettiva e cui tutti devono aderire per sentirsi membri del gruppo. Si tratta esattamente di ciò che De Certeau chiama «fictionarizzazione dei fatti storici».[8]
Tra le varie pratiche memoriali, la commemorazione delle vittime di atti di violenza ha come fine latente di ostacolare ogni analisi o conoscenza dell’evento storico che si proponga di adottare uno sguardo critico e riflessivo. Ricordare, e farlo in un certo modo politicamente direzionato, diventa un dovere che determina il posto assunto dall’individuo in seno al gruppo. L’interpretazione dominante di un evento, che ha particolarmente colpito la società nel suo insieme, non ammette narrazioni alternative cadendo nell’ambito dell’impronunciabile. Proporre una riflessione critica diventa un vero e proprio tabù, quasi l’abnegazione di un precetto morale. Il fine ultimo non è infatti la riflessione, che implicherebbe il gruppo in un’assunzione di responsabilità, ma la comunione emotiva e religiosa (nel senso di Durkheim). Allo scopo di legittimare il senso di appartenenza a un’umanità superiore in contrasto con ciò che sta al di fuori dello spazio del sé e quindi percepito come estraneo, ogni lettura che renda conto della complessità dei fattori in gioco è rimossa dal campo del pensabile. La spinta sociale alla coesione del gruppo è così forte che la mitizzazione dell’avvenimento rappresentato nei termini di una verità storica diventa l’unico canale per una sua legittima interpretazione.
Pertanto il potere persuasivo della narrazione si attualizza in un intrigo che trasforma i fatti in exempla moralia, che sposta i piani di realtà per adattarli all’ordine assiologico posto a fondamento della trama, per disciplinare infine lo spazio sociale agendo sulla recezione pubblica della storia collettiva così com’è tramandata.[9] La narrazione esercita un potere immenso, che tuttavia sfugge al controllo poiché si presenta come rappresentazione veritiera di ciò che accade o è accaduto.[10] Propria per questo, la società contemporanea costruisce e mantiene la coesione sociale e la coscienza condivisa sulle pratiche memoriali che rievocano i fatti passati e remoti, secondo la loro versione ufficiale, percepiti come dei miti fondatori dell’identità collettiva (Peschanski 2013).
Note.
[1]Georg W. F. Hegel (1820), Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it, Laterza, Roma-Bari, 1979, p. 428.
[2] Ivi, p. 430.
[3] Michel Foucault, Histoire de la sexualité, vol.1 : La volonté de savoir, Gallimard, Paris, 1976, p. 36.
[4] Richard Schechner, Performance Studies, an introduction, Routledge, New York, 2002, p. 35.
[5] Come si può notare dalla dislocazione geografica della cerimonia qui descritta e delle adunate spontanee che l’avevano preceduta nei giorni immediatamente successivi alla tragedia del 13 novembre, la commemorazione delle vittime di Charlie Hebdo e Hyper Cascher si è confusa con la rielaborazione di quest’ultimo drammatico massacro che ha colpito la città di Parigi proprio nell’undicesimo arrondissement.
[6] John L. Austin, How to Do Things with Words, Harvard University Press, Cambridge USA, 1962, p. 7.
[7] Victor Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 32.
[8] Michel De Certeau (1987), Storia e psicanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 55.
[9] Seguendo la prospettiva di De Certeau, si consideri che i fatti storici sono inquadrati in una cornice narrativa che esprime un preciso ordine di significato non soltanto cronologico ma anche logico e assiologico: il resoconto storiografico contestualizza l’evento inquadrandolo nelle coordinate antecedenti da cui ha origine; inoltre esso viene presentato, come ogni narrazione, nell’obiettivo di far emergere il sistema di valori consolidato. Anche la storia, infatti, si è tacitamente costituita grazie a un concetto di verità tratto dalla metodologia delle scienze della natura: costruendo l’autenticità delle proprie affermazioni attraverso l’eliminazione di tutto ciò che, posto sotto l’etichetta del falso, entra in contraddizione con le sue verità, ha fondato la propria realtà sul confinamento dell’irrealtà, sull’espulsione dell’alterità e della differenza (Ivi, p. 57).
[10]Ivi, p. 60.