Quando pensiamo al prender corpo della scrittura, pensiamo alla carne.
Forse perché risuona in noi, come una specie di marchio originario, il versetto biblico che incarna perfino il divino nella parola. La parola si fa carne di Dio.
Gli esempi che esaltano le virtù carnali, animali e animalesche della scrittura sono numerosi ed è impossibile stilarne un elenco. Basti dire che ogni volta che si vuole sottrarre la scrittura a un’armatura raziocinante o la si vuole salvare da processi di sterilizzazione e istupidimento (il destino dello scrivere nelle scienze iperspecializzate) si fa appello alla carnalità e all’animalità che lo scrittore – non il mero scrivente – deve prima sentire e poi far sentire. Scrittore “carnale” è chi sa coinvolgere il lettore in un magico e irripetibile scambio erotico.
Sembra dunque che solo facendo appello alla carne si possa mettere a nudo questo specifico e ogni volta unico dispositivo di creazione e fruizione del desiderio attraverso la parola.
Esiste però un’altra frontiera. Un esempio di scrittura post-animale, una scrittura appunto vegetale. L’esperimento di vegetalizzazione della parola è il cuore del libro della sudcoreana Han Kang ora disponibile in italiano per Adelphi col titolo La vegetariana. È questo il titolo di un racconto della Kang del 2007, che seguiva il forse ancora più intenso La macchia mongolica del 2005, anch’esso riprodotto in traduzione italiana, come secondo movimento di una trilogia chiusa da Fiamme verdi. Del libro esiste anche una trasposizione cinematografica del 2009 diretta da Lim Woo-Seong.
Tre racconti che formano una storia. O la stessa storia raccontata in tre diversi momenti da tre distinte prospettive, i punti di vista dei personaggi trascinati dalla protagonista in un inconsapevole vortice di ritorno alla natura che non ammette ripensamenti e non promette redenzioni: è soltanto un prosciugamento dell’animalità che coincide con un inesorabile congedo dall’umanità.
Resti umani di natura vegetale. Sono questo le ossa e le scarne membra di una donna che rifiuta di mangiar carne per imposizione di volti e voci che le vengono in sogno, e che altro non sono se non i fantasmi degli animali da lei assimilati attraverso l’atto della nutrizione e depositatisi in qualche insondabile appendice del suo corpo. A partire da quel cane che un giorno, da bambina, l’aveva morsa, e che lei era stata costretta a mangiare quella stessa sera a cena, dopo che il padre l’ebbe seviziato e ucciso in onore al suo tribale sistema di credenze.
Animalità è violenza: quella del cane che la morde, quella del padre che la picchia. Lei non reagisce: accumula dolore e lascia che esso si sedimenti nel suo corpo, nella carne, assieme alla carne, attraverso la carne.
Intanto osserva gli alberi e vorrebbe essere uno di loro, per non più subire, per non più sentire. Uno grande, forte, maestoso, con le radici ben piantate – le braccia che affondano nella terra – e i rami protesi al cielo – le sue gambe che si aprono e lasciano sbocciare fiori. Voci la attirano in un vertiginoso processo di vegetalizzazione. C’è solo un momento, in questa dissoluzione dell’animale, che le voci tacciono. È quando suo cognato le dipinge fiori su tutta la superficie del corpo e si congiunge con lei in un atto di carnalità che è l’ultimo, estremo ricordo dell’animalità in dismissione. L’arte sublima l’eros in un’estrema frontiera dell’umano che ha già superato il confine della moralità e della sanità.
L’apice del dispositivo desiderante raccontato dalla Kang è qui. Il resto è il lirico e commovente canto d’addio di una donna alla bestia umana. In alcune interviste la scrittrice ha dichiarato che per molto tempo ha agito su di lei l’influenza di un verso del poeta sudcoreano Yi Sang, scritto durante la colonizzazione e occhieggiante a una forma estrema e silenziosa di resistenza oltre-umana. Il verso dice, nella traduzione inglese: I believe that humans should be plants. Gli esseri umani dovrebbero diventare piante. La stessa Kang sembra aver subito un’esperienza affine quando le dita le hanno impedito di digitare sulla tastiera di un computer e l’hanno costretta a scrivere a mano. Parte di questa storia è stata scritta così. E questa necessità ha prodotto un risultato stilistico intrecciato alla storia, come la vite attorno a un tralcio. La percezione che il processo di mutazione vegetale riguardi cioè anche la scrittura.
Mentre il cognato/artista dipinge fiori sul corpo della “vegetariana”, un corpo che ha la sua potenza e la sua bellezza nell’aver dismesso ogni desiderio e che solo allora diventa inspiegabilmente desiderabile, lui si vergogna di averlo immaginato come svilito oggetto di pornografia mentale e di non averlo compreso nella sua innocente e spontanea nudità di pianta. È questo il momento in cui il “filo” che separa reale e irreale cade, e si intuisce la silenziosa protesta della protagonista: di colpo il racconto sembra interrompersi e le lettere cominciano una strana specie di danza. Una fioritura. Sensazione e conseguenza di una febbre che sale e che è data dall’esposizione alla scrittura. Una scrittura che sa di corpo e si impossessa del corpo. Ma in modo nuovo, come una pianta che fiorisce e ha bisogno di un sostegno per crescere. Le parole si scompongono nei loro minimi elementi e le lettere, lasciate libere da ogni congiunzione, abbandonano la pagina e cominciano a inerpicarsi lungo le braccia, si impossessano di una coscienza ridotta a ramo e, ricomponendosi, riscrivono lo stesso testo su un corpo altro. Un corpo lavorato dalla metamorfosi vegetale.
Esistono sempre diversi livelli di lettura di un testo e di un’opera d’arte. E anche di questo libro è possibile ricavare suggestioni di natura etica e politica. Ma, come spesso accade quando si cerca di spiegare l’arte al di fuori dell’arte, la forza di una narrazione non si trova nel messaggio che potrebbe trasmettere. La potenza di un lavoro è quasi sempre nell’esibizione di qualcosa di cui spesso anche l’autore è inconsapevole e che una critica autenticamente “completante” deve sapere integrare.
Siamo lontani da una riedita infiorescenza dell’arte modello Jungendstil, da una già superata ornamentalità della natura. Qui è all’opera qualcosa di nuovo. Un’esperienza di scrittura vegetale. And I believe that writings should be plants…